Alla padrona di casa

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Quando ti presi, in una piazza nordica dove soffia sempre il vento, un microclima, non eri che una piantina tra tante, un rametto nel germoglio delle mie ambizioni: mi ero appena intestato una casa con terrazzo, e nella mia fantasia il verde urbano rampicava già fino alle tegole. Mi dissero che ero fortunato a trovarti, che sul lungolago eri in via di estinzione, la febbre del mojito portava i baristi a saccheggiare le serre.

Poi venne l'estate e il tuo primo compare ci restò secco. Seccasti anche tu, bastò lasciarvi soli un paio di settimane, in attesa di una pioggia mai arrivata. Quanto a me, la speranza si era seccata già da prima, l'estate quando si presenta sembra vacua e immensa ma poi si riempie subito di cose da fare e insomma ciao, non avevo nemmeno la forza di volontà necessaria a buttarti nella spazzatura. Strappai via tutti i resti secchi che erano stati te, sentii appena una fragranza di chewingum, ti mollai agli elementi dell'autunno. Forse gli adulti devono fare così, chiarire da subito che sono stronzi inaffidabili. Tu alle prime piogge buttasti già fuori le prime foglie, timide, ai bordi del vaso, lontano dal delitto.

Poi venne inverno e la tormenta di neve del secolo: te ne sei accorta? A un altro compare tuo marcirono le radici, tu riprendevi forma. Venne un'altra estate e ci furono di nuovo cose importantissime, emergenze che mi tenevano lontano, e di nuovo eri morta, e di nuovo mi maledissi, ma ormai ti conoscevo, avevi seminato speranza. Staccai i rametti secchi, non ti buttai. A settembre eri già verde di nuovo.

E ancora inverno e neve da spalare. E poi, ai primi caldi, una novità: la terra che trema. Ma le piante di queste cose non si curano, un terremoto per loro val meno di un soffio di vento serio. Le norme antisismiche, le hanno interiorizzate in una fase molto precoce della loro evoluzione, e ora se ne ridono delle magnitudo e dei mercalli. L'unico problema sono i maledetti umani che scappano via e non mandano nessuno a innaffiare, certo dipendere da una specie così pusillanime dev'essere seccante.

Ma tu non ti secchi più, quando tornai mi hai salutato altera, i tuoi quattro rami (tanto vicini al bordo del vaso), oscillanti alla canicola: toh, guarda chi c'è. Regina di un terrazzo abbandonato al nulla, ai fiori di tiglio riarsi che pure le formiche disdegnano.

E io dovrei staccare le tue foglie orgogliose, pestarle col ghiaccio, ammollirle all'alcol dolciastro, io? Ma a che titolo, io nemmeno di annusarti sono più degno. Suggi piuttosto tu di me, ficca le tue radici in queste trippe pavide di profugo e guarda se c'è qualcosa di nutritivo, ma dubito. Del resto hai tutto: diossido e sole in abbondanza, e l'acqua, se proprio ci tiene, verrà. Tu te ne freghi dell'afa e della tempesta e della tormenta, e dei terremoti in particolare. Ben altri padroni meritavi, ben altri coinquilini, ché ormai per usucapione la padrona qui sei tu.
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